Non c’é Playboy senza coniglio

È di qualche giorno fa la notizia della scomparsa di Hugh Hefner, fondatore della rivista erotica Playboy che dagli anni Cinquanta ad oggi ha dato vita a un business milionario articolato su ogni tipo di media e in una miriade di prodotti di merchandising. Da allora non si stanno sprecando le analisi che, adottando punti di vista diametralmente opposti, vedono nel logo del bunny vuoi un simbolo del movimento di liberazione sessuale o, al contrario, l’ennesimo emblema di una società maschilista che contribuisce a diffondere la visione della donna-oggetto.

A prescindere dal vivace dibattito, ciò che è fuori discussione è la storia di successo incarnata dal marchio Playboy. È vero, a partire dalla metà degli anni ‘70 le vendite stellari sono diventate un lontano ricordo e la distribuzione si è stabilizzata su cifre inferiori, ma è innegabile che la rivista fondata da Hefner abbia in qualche modo scosso il panorama editoriale globale, se non tanto nel veicolare una nuova e “liberata” immagine delle donne quantomeno nel proporre contenuto erotico in una forma nuova.

Del resto, se si può dire che non è Playboy senza una Playmate of the Month, al tempo stesso è vero che la rivista di Hefner non è mai stata solo le sue Conigliette. Quando il primo numero fece capolino nelle edicole americane, con niente meno che Marylin Monroe in copertina, non furono in molti a resistere alla tentazione di sfogliarne le pagine. Nudo, certo, ma non solo: un mix di contenuti che ha fatto dell’intrattenimento colto uno dei suoi tratti distintivi. Le pagine della rivista hanno ospitato i contributi letterari di scrittori come Ray Bradbury, Gabriel Garcia Marquez e Jack Kerouac, senza dimenticare la rubrica delle interviste inaugurata negli anni Sessanta con la star del jazz Miles Davis, poi proseguita coinvolgendo anche personaggi chiave della scena politica globale come Malcolm X e Martin Luther King.
La novità di Playboy stava proprio nella sua capacità di esprimere un lifestyle, più che un semplice prodotto, e quello che Hefner stava comunicando era un mondo ovattato, intrigante, popolato da ragazze della porta accanto che incorniciano il racconto della contemporaneità, rendendolo più leggero ma non per questo frivolo.

L’universo Playboy ha da subito avuto un volto ben preciso. Apparve già sul secondo numero l’elegante coniglietto con il papillon destinato a diventare uno dei loghi più famosi e longevi della storia del marketing. Il suo design pulito, semplice ma unico si deve all’estro di Art Paul, primo direttore artistico della rivista. La leggenda narra che gli ci volle poco più di mezz’ora per abbozzare qualcosa che fosse al tempo stesso spiritoso, sexy e vivace e il bunny fu la sintesi perfetta, rimanendo invariato da allora.
Proprio come il coniglio, la ragazza di Playboy è semplice, giocosa e ammiccante: prima si avvicina, poi scappa, poi torna, ti stuzzica e ti diverte. Nel mondo di Hefner non c’è mai stato spazio per donne misteriose e complicate, le Conigliette, nelle parole di Paul, “non indossano pizzo nè mutande, sono nude, ben lavate con acqua e sapone – e sono felici”.
Un design dalla forma efficace che sin dalle origini ha sempre indossato un solo colore, il nero, perfetto per veicolare un’idea di lusso, professionalità e classe.

L’efficacia di un marchio si vede e si misura anche e soprattutto nel merchandising che è in grado di generare e quello marchiato Playboy è eterogeneo, capace di stare al passo coi tempi nonchè di resistere come simbolo di sensualità e, perchè no, controversia, come emblema di un dibattito che non si è mai assopito. Ad oggi una delle più importanti voci di introiti della Playboy Enterprises, il successo di prodotti e gadget marchiati con il distintivo bunny dimostra come un logo ben congeniato possa rivelarsi significativo, se non determinante, nell’alimentare i fatturati.

Del resto, le cose da quel lontano 1953 sono cambiate. Prima la concorrenza di pubblicazioni come Penthouse, che innescò quelle che Hefner definì “guerre pubiche” a suon di fotografie sempre più esplicite, ha stravolto il settore ridimensionando il primato di Playboy. Poi è arrivato il digitale, che in qualche modo ha indebolito quell’immaginario del desiderio fatto di tensione, mistero e fantasia, relegando la rivista di Hefner a erotismo softcore di nicchia in un mondo in cui basta un click per soddisfare le proprio pulsioni, anche quelle più nascoste. Risale a pochi anni fa, inoltre, la decisione, già accantonata, di eliminare il nudo integrale dalle pagine della rivista, mossa che sembrava celare il tentativo di smarcarsi da quell’accusa di mercificazione del corpo femminile avanzata da più parti nei confronti di Hefner.

Se il digitale ha acuito la crisi della carta stampata, al tempo stesso ha offerto un’opportunità al settore editoriale che Playboy non si è lasciato sfuggire. Il brand ha saputo evolversi, sviluppando la propria identità su nuovi media e settori mercelogici contribuendo a diffondere il suo marchio e a sfruttarne la notorietà. “Mentre una volta era la rivista a diffondere il brand, ora è il brand che traina il magazine.” ha detto Hefner al New York Times nel 2010. “Abbiamo merchandise che vendiamo ovunque, come i vestiti. Siamo uno dei principali brand esclusivi per uomini nel continente cinese, in cui la rivista non è ancora permessa”.

Attualmente la rivista viene pubblicata in oltre 20 stati nel mondo e il brand è presente in più di 150 paesi, con la Playboy Enterprises che dichiara più di 1 miliardo in vendite annuali provenienti dai suoi prodotti registrati. Sicuramente quello del fashion è uno dei settori più remunerativi, con capi d’abbigliamento di ogni tipo che danno vita a collezioni uniche in cui primeggia il bunny. T-shirt, borse, occhiali da sole ma la moda è solo uno dei tanti territori esplorati dal merchandising marchiato Playboy: accessori per la casa, profumi, gioielli, orologi, preservativi (ovviamente!) e diverse incursioni nel mondo dei gadget tecnologici con smartphone brandizzati, mouse e simpatiche chiavi usb con le caratteristiche orecchie.

La scomparsa di Hugh, che con la sua vestaglia di seta e il sigaro in bocca ha rappresentato un simbolo di eguale forza nell’esprimere il mondo di Playboy, rimanendo sotto le luci della ribalta con i suoi eccessi e provocazioni, apre sicuramente una nuova era per il brand ma la sua originale intuizione rende il futuro meno incerto. Nel corso della sua vita, Hefner ha capito che ciò che stava vendendo non era il sesso ma piuttosto il sogno, la promessa di esso, implicata dall’acquisto della rivista e dal possesso dei giusti prodotti di lusso. Lo stile di vita sottinteso dalla filosofia di Playboy è sempre stato strettamente legato all’American dream che, per quanto smitizzato, continua in qualche modo ad influenzare l’immaginario delle aspettative. E finchè sarà così, il coniglio continuerà a saltellare.